Vincenza Gerosa
GREMBIULE E ZOCCOLI

di Albarica Mascotti

Preghiera
Santa Vincenza, tu accogliesti in pura fede,
nell’abbandono completo di te stessa al volere divino,
la missione che ti ha congiunta a Bartolomea.
Aiutaci a spogliare la nostra fede da ogni razionalismo
così che riacquisti quell’intelligenza d’amore,
quella forza di intuizione e di operosità, quel senso del divino
che nascono da un cuore proiettato con fiducia
nel mistero semplice e infinito di Dio.
Accompagnaci nei momenti difficili,
tu, la grande obbediente che Dio ha esaltato. Amen.

Sui mercati
Era giorno di mercato a Iseo. Nel barcone, che dal piccolo porto di Lovere (Bergamo) moveva lentamente in quella direzione, c’era anche Ambrogio Gerosa con il suo carico di pelli fresche di concia e con l’aria fiera di chi nutre buone previsioni per i propri affari.
In realtà, i Gerosa erano gente onesta: i prezzi contenuti e la qualità della merce rendevano competitivi i loro prodotti perfino sulle piazze più importanti, da Milano a Venezia, a Verona, a Bolzano.
Mentre sul lago si riversavano le prime luci del giorno, Ambrogio si abbandonava ai suoi pensieri di capo dell’azienda, perfettamente tagliato per quel lavoro; ne interrompeva di tanto in tanto il corso per gettare un’occhiata alla nipote Caterina, che si era sistemata nell’angolo più tranquillo dell’imbarcazione. Evidentemente per pregare. Lo zio lo sapeva: erano così anche le altre due rimaste a casa, Rosa e Francesca. Anzi, tutto il paese sapeva che le sorelle Gerosa erano brave ragazze, dedite alla pietà e alle opere di bene.
– Intanto che sono in chiesa, lasciamole stare – aveva sentenziato una volta per tutte lo zio Ambrogio, il patriarca di una famiglia che con la passione degli affari coltivava anche il senso cristiano della vita.
Per le tre sorelle quella libertà era tutta la loro ambizione. Caterina poi, così avveduta, intraprendente, retta nel giudizio e già capace di consiglio, era una sicura promessa anche per il commercio. Che cosa si poteva desiderare di più in mancanza di un erede maschio? Ambrogio riconosceva con un intimo compiacimento che sotto la sua guida quella ragazza aveva afferrato presto i segreti del mestiere; per questo se la portava con sé, anche fuori paese, quando doveva trattare affari. Da lui aveva pure imparato a scrivere e a conteggiare, così che sapeva sbrigarsela già bene in negozio.
In realtà, a suo tempo, Caterina era stata affidata alle benedettine di Gandino per un po’ di istruzione, ma si era subito ammalata.
– Ci penso io a insegnarti quanto basta per la vita – l’aveva allora rassicurata lo zio senza rincrescimenti.
A quei tempi l’istruzione non era poi così diffusa e tanto meno tra le ragazze! Ambrogio poteva davvero compiacersi dei frutti della sua scuola e di fatto per quella nipote avrebbe messo la mano sul fuoco.
La barca intanto toccò la sponda tra lo sciabordare delle onde e il vociare dei mercanti che già giungeva dalla piazza di Iseo.

La famiglia Gerosa
A casa, ad attendere ai lavori del fondaco e al negozio, erano rimasti i fratelli di Ambrogio, Luigi e Giannantonio, padre di Caterina. Completavano la famiglia patriarcale dei Gerosa le sorelle Maria e Bartolomea e le nipoti con la loro madre, Giacomina Macario. Un altro fratello, Salvatore, si era orientato diversamente nella vita.
I Gerosa erano approdati a Lovere dalla Brianza, prevedendo migliori fortune in un paese proteso sul lago e situato nella zona di confluenza delle valli. Per questa sua posizione, infatti, le attività commerciali vi fiorirono fin nei tempi remoti. Le aveva poi incrementate la lunga appartenenza di Lovere alla Repubblica di Venezia, le cui glorie tuttavia, in quell’ultimo scorcio del Settecento, si andavano ormai spegnendo.
A Lovere, comunque, i Gerosa erano tra le famiglie economicamente più fortunate. Non si chiudevano però egoisticamente nel loro benessere e neppure lo ostentavano. Tutt’altro! La loro tavola era frugalissima, il vestito alla paesana, senza inutili ornamenti; non ambivano le raffinatezze proprie della loro condizione neppure nell’educazione delle ragazze.
Tutto poi andava a vantaggio dei poveri che bussavano numerosi alla loro porta, dalla quale – a detta dei loveresi – nessuno usciva a mani vuote. Per i Gerosa era un dovere cristiano indiscutibile tenerla sempre aperta.
In quella casa, a quattro passi dal porto, era cresciuta Caterina, che vi era nata il 29 ottobre 1784, primogenita di Giannantonio e di Giacomina Macario. Qui, sull’esempio degli zii, si era abituata presto ad attendere alle faccende domestiche, ma anche a “trasportare legna, a vagliare il grano, a confezionare la colla per la conciatura, a lavorare l’orto”. E le sorelle la seguivano. Da fare ce n’era per tutti perché i Gerosa possedevano pure terreni e case con mezzadri.
E a mano a mano, come gli zii, Caterina si era abituata anche ad accorgersi dei bisogni che si nascondevano nelle case attorno. Ne era, anzi, nata una gara tra le sorelle. Rosa, più timida, seguiva i passi di Caterina, mentre Francesca sapeva anche prendere l’iniziativa: con disinvoltura si caricava sulle spalle un po’ di legna e si dirigeva verso le abitazioni più povere, affrontando con semplicità gli sguardi stupiti dei passanti, e neppure esitava, al bisogno, a elemosinare aiuti da altri.
Delle fatiche quotidiane poi si rifacevano con qualche scappata alla chiesa, in San Giorgio o in Santa Maria, dove ci fosse una celebrazione; e immancabilmente chiudevano la loro laboriosa giornata nella cappella delle clarisse, rimanendo inginocchiate sul pavimento, tra la prima colonna e i banchi, fin oltre il suono dell’Ave Maria. La domenica poi era tutta per loro: si mettevano in festa e, allegre come le campane, accorrevano alla Messa e poi si davano a opere di bene, coinvolgendo qualche amica.
Dentro quella casa, invidiabile per tanti motivi, non tutto però correva liscio. Ovviamente si annidavano anche lì le tensioni e le sofferenze comuni a ogni convivenza, e perfino accentuate, data la struttura patriarcale della famiglia.
Le disarmonie c’erano e si possono facilmente immaginare se si pensano affiancati nei rapporti quotidiani Ambrogio, il patriarca, cui tutti dovevano sottostare, Bartolomea dal temperamento impraticabile, Giannantonio con la sua scarsa attitudine agli affari e con la moglie ormai etichettata, forse perché si concedeva qualche innocente capriccio, come donna di poco equilibrio.
Le tre sorelle respiravano anche quell’aria di reciproche incomprensioni e ne soffrivano profondamente, perché a farne le spese erano soprattutto i genitori. Naturalmente quest’altra faccia della medaglia i Gerosa non la esponevano allo sguardo di tutti; solevano – come si dice – lavare in casa i propri panni.

Davanti al Crocifisso
Giunse la sera di un giorno mesto per Caterina. Con gli occhi gonfi di lacrime trattenute a forza, aveva atteso quel momento per raccogliersi nella sua camera e abbandonarsi finalmente al pianto davanti al Crocifisso, che teneva sul cassettone come su un altare.
Quel giorno le era mancato il padre, malato da qualche tempo. Affetti, pensieri, nostalgie le si dibattevano dentro e insieme le ritornava insistente il ricordo della sofferenza tante volte provata nel vedere il proprio genitore lasciato così in disparte dai fratelli e soltanto perché le sue attitudini – del resto apprezzabili – non collimavano con gli interessi comuni della famiglia.
Ed ora – pensava – che sarebbe stato della mamma già così invisa agli zii? E che cosa avrebbe potuto fare o dire in sua difesa lei, la maggiore delle figlie, ma che in fondo aveva solo diciassette anni?
Guardò attraverso il velo delle lacrime le piaghe del Crocifisso e cominciò a scenderle pace nell’anima. Egli taceva, sopportava continuando ad amare, e perdonava. Era la risposta?
Tornarono, dopo quello smarrimento, le giornate operose, riprese l’andirivieni dai mercati, ma in casa l’aria si faceva sempre più greve.
Come Caterina aveva intuito, la morte del padre fu solo il principio di una lunga sequenza di colpi duri. Inaspettatamente si ammalò e morì Francesca, un cuor solo con lei e rimpianta dal paese come un angelo di bontà. E un altro giorno, il più triste di tutti, Caterina e Rosa dovettero salutare la madre che gli zii non tolleravano più in casa. Con quale strazio del cuore l’aiutarono a raccogliere le sue cose e la videro poi uscire, povera e indifesa, da quella porta, dalla quale pure uscivano tante carità! Una decisione quella dei Gerosa, di cui, per il loro riserbo, non si conoscono le vere ragioni e comunque incompatibile con le loro convinzioni cristiane.
In verità, le due figlie avevano deciso di seguire la madre e di condividere con lei l’abitazione, il lavoro e le privazioni a cui non era abituata, ma furono sconsigliate e invitate piuttosto ad aiutarla nelle sue necessità con quello che era di loro appartenenza. E fecero proprio così, dopo aver guardato, come al solito, ma molto molto più a lungo il Crocifisso.
Dovettero poi servirsi di una zia materna per raggiungere la madre, perché non era loro consentito nemmeno il conforto di avvicinarla. Ci vollero alcuni anni e una malattia grave della cognata per indurre i Gerosa a togliere quel divieto alle figlie. Esse poterono allora assisterla alternandosi presso il suo letto ed esprimendole tutta la loro tenerezza filiale. Le prodigarono ogni cura possibile, ma la speranza in una ripresa si affievoliva sempre più fino a spegnersi nella notte dell’8 febbraio del 1814.
Desolate, le due sorelle si chiusero in cuore tanto dolore ma anche, confortatrice, l’ultima sua benedizione.

Vera signora della carità
Si smorzavano intanto le impennate della bufera napoleonica e un giorno alla finestra del municipio i loveresi videro sventolare la bandiera austriaca. Dal succedersi dei governi e delle guerre il paese era stato profondamente segnato in tutte le espressioni della sua vita, al punto che – narrano le cronache – alle famiglie non rimanevano che “le lacrime, esaurito anche il sangue dei figli”.
Alle emergenze causate dagli eventi politici e militari si aggiunsero, tra il 1814 e il 1818, disastrose calamità naturali. Tutto cominciò con un’estate di piogge, inondazioni e strane nevicate, che compromisero i raccolti e ridussero alla fame molte famiglie. Con la carestia si diffusero poi epidemie di tifo e di vaiolo, che decimarono i paesi.
Per i loveresi più sfortunati casa Gerosa divenne allora una speranza. “Chi vi fosse andato all’ora del pranzo l’avrebbe trovata piena di poveri”. Ma lunghe file di gente, denutrita e macilenta, scendevano a Lovere anche dalle valli, così che le vie brulicavano di mendicanti.
Nonostante tutto, i Gerosa, oculati nell’amministrazione e buoni risparmiatori, possibilità, se pur ridotte, ne avevano ancora e con chi pativa la fame non lesinavano.
Passarono anche queste emergenze, che però lasciarono nelle famiglie profonde lacerazioni. Intanto l’età e le fatiche cominciavano a fiaccare la fibra robusta dei Gerosa, tre dei quali, uno dietro l’altro, tra il 1822 e il 1824, se ne andarono, dopo aver perpetuato nelle ultime volontà quella loro attenzione ai poveri che i loveresi avevano sempre benedetto, nonostante l’ombra del gran torto fatto alla cognata.
In quella ormai troppo grande casa non rimanevano che la zia Bartolomea con il suo perpetuo borbottare e le due nipoti, decisamente intenzionate a fare della carità il loro ideale di vita. Con maggiore libertà Caterina ora si infilava, lesta e furtiva, nelle vie e nei viottoli scomparendo dietro le porte delle case, dove si nascondevano i bisogni; con garbo e discrezione ne prendeva nota e poi… arrivavano le fasce per il neonato, il vino buono per l’infermo, il frumentone per la fame dei figli, il letto per il ragazzo che cresceva, il condono di un debito, l’ordinazione di un lavoro per far guadagnare un artigiano, l’aiuto ad aprire un negozio di cui poi si faceva cliente, il necessario per mettere su famiglia e, perché no?, anche e anzitutto qualche lezione di vita a chi percorreva una cattiva strada.
– Io non ci sarò più, ma questa casa diventerà un santuario – soleva ripetere una povera madre di famiglia additando un’inferriata dalla quale la Gerosa la chiamava con un cenno della mano, per infilarle poi nel braccio un cesto pieno di cose da mangiare e altro.
Spesso, infatti, alcune povere donne, con il sacco della farina nascosto nella sporta, indugiavano su quella soglia, spinte lì dal pianto dei figli e insieme timorose di osare troppo. Caterina, che le spiava dall’inferriata, le preveniva allora bonariamente:
– Non siete neanche capaci di chiedere; mangiare bisogna, lasciate qui il sacco.
Anche dietro le sue elargizioni c’erano però segrete storie di personali rinunce e sacrifici, ma le sapevano soltanto lei e il Crocifisso. Perché Caterina faceva destramente scomparire tutto sotto un bel fare, garbato e discreto, da vera signora della carità.

Una giovane amica
A Lovere non esisteva ancora l’oratorio femminile, tanto raccomandato dal vescovo di Brescia, mons. Gabrio Nava, in una lettera pastorale. Anche don Rusticiano Barboglio ne avvertiva l’urgenza per la gioventù della sua parrocchia, ma occorrevano persone e mezzi.
Pensandoci, gli passò per la mente Caterina, che di ragazze si occupava già. Anselma, l’apprendista sarta, che veniva da Castro, Maria, Luigia, un’altra Maria, giovani esuberanti da indirizzare bene nella vita, frequentavano spesso casa Gerosa per il pranzo o per piccoli lavori, industrie di Caterina per sottrarle ai pericoli della strada; altre, già bene orientate, come le Omio, le Bosio, le Gallini, vi si raccoglievano periodicamente per pregare insieme, per infervorarsi nel servizio di Dio.
– Oltre a tutto – ammise infine don Barboglio, che aveva occhio e cuore di pastore – mi convinco sempre più che il Signore abbia dei disegni particolari su Caterina.
Insomma, le pareva proprio la persona giusta. Incontrandola un giorno, le comunicò perciò le sue intenzioni:
– Si tratta semplicemente, per ora, di radunare le ragazze la domenica, di pregare insieme, di offrire loro qualche svago…
Detto fatto, Caterina spalancò il portone della sua casa e subito le giovanette del paese accorsero nella bella veranda, riempiendola di voci e di gaiezza. Quel festoso andirivieni non spiacque alla fin fine neppure alla zia Bartolomea, anche se qualche borbottamento le dovette pur sfuggire. In fondo non facevano che pregare, cantare e ricrearsi serenamente.
Non passò molto e un giorno nel gruppo spuntò Bartolomea Capitanio, una diciassettenne appena uscita dal collegio delle clarisse, bene educata, fresca di studi e con un po’ di esperienza di insegnamento. Abitava con i genitori e la sorella Camilla nella vicina via delle Beccarie, dove la famiglia gestiva un negozio.
Nei successivi incontri Caterina capì che era anche intraprendente, coraggiosa, piena di voglia di farsi santa e di rendersi utile per il bene delle sue coetanee. Era proprio quella che ci voleva: bisognava pure dar forma ordinata all’oratorio con una sede opportuna, con un regolamento, con delle vere animatrici. Lei, Caterina, non si sentiva fatta per le cose in grande!
Tutto fu presto combinato con il parroco e con il suo coadiutore, don Angelo Bosio. E così, una domenica, una schiera di ragazze, che casa Gerosa non poteva più contenere, capitanate da Bartolomea, sciamò più festosa del solito nel nuovo oratorio a lato della chiesa parrocchiale di San Giorgio.
Lì avevano tutta per loro una cappella vera e propria, fatta rinnovare e arredare da Caterina e da Rosa, un regolamento con precisi doveri, a cui aveva pensato Bartolomea, appuntamenti periodici e perfino ritiri ed esercizi spirituali, sovvenzionati naturalmente da casa Gerosa. Un vero oratorio insomma, che formava cristiane e beneficava le famiglie.
Intanto Caterina guardava con crescente simpatia a quella sua giovane amica che, ricca di doti e animata da ardore apostolico, dava ali alla sua umile iniziativa.
E Bartolomea ammirava la vita santa di Caterina, uno svegliarino per lei che in educandato, giocando alle buschette, aveva promesso con ferma decisione: “Voglio farmi santa, gran santa, presto santa”. Le era toccata in sorte la pagliuzza più lunga del fascetto e lo aveva ritenuto un segno del Cielo.
Pochi anni dopo, tutte e tre – le sorelle Gerosa e Bartolomea – si trovarono coinvolte in un’altra attività di bene, di cui il paese aveva estremo bisogno. Aveva, a suo tempo, mosso il primo passo lo zio Ambrogio cedendo, nelle disposizioni testamentarie, una bella casa presso Porta Seriana, con terreno attorno e un’incantevole vista sul lago, perché fosse adibita a ospedale. A suggerire quell’intenzione al lascito che egli aveva deciso di fare era stata proprio lei, Caterina. E ora le sembrava giunto il momento di dare vita anche a quell’opera.
L’edificio c’era, ma occorreva adattarlo e provvedere alle suppellettili; qui però Caterina ci sapeva fare. Accordatasi con l’ente di beneficenza, si prestò a seguire i lavori. Appena libera dagli altri impegni, sopraggiungeva sollecita sul posto: “vedeva il da farsi, ordinava, provvedeva, vegliava perché tutto andasse a dovere”. Terminata la fabbrica, arrivarono i letti, la biancheria, le stoviglie e anche varie giovani a dare una mano.
Così il 1° novembre del 1826 l’ospedaletto con due reparti e l’altare in mezzo era pronto per l’inaugurazione. Se ne sarebbe occupato il medico condotto con qualche infermiere. Caterina volle affidare a Bartolomea l’incarico di economa e di direttrice e con lei poi gareggiò nei servizi di assistenza. Ripulire, rifare i letti, soccorrere, immedesimarsi nella sofferenza di ciascuno era la parte preferita da Caterina, che a mano a mano seminava parole di conforto, di compassione e di fede, perché – diceva – bisogna arrivare fino all’anima del malato.
Qualche anno dopo essa dovette assistere in casa la sorella Rosa che si era ammalata seriamente. Con il cuore spezzato, sostenendosi con parole di fede e con affetti al Crocifisso, si prepararono al sacrificio, che si consumò il 28 novembre del 1829, lasciando sole, nella grande casa dei Gerosa, Caterina e la zia Bartolomea.

Un fulmine a cielo sereno
La vita aveva temprato Caterina ai sacrifici più penosi, eppure quella nuova spina che da qualche tempo le feriva l’anima era del tutto fuori di ogni previsione. E questa volta a mettere scompiglio nelle sue giornate, ormai così bene ritmate da spazi di preghiera e di dedizione al prossimo e finalmente un po’ più tranquille, era proprio la sua giovane amica, Bartolomea Capitanio.
Non aveva grosse ambizioni Caterina: le bastava quel bene quotidiano che poteva dispensare in casa, alla gente di Lovere e dei paesi circostanti, dove la spingevano gli affari di famiglia. E poi la sua età non era più quella dei grandi sogni…
– Dobbiamo vivere nascoste, contentarci di quel poco che Dio vuole – si affrettò a rispondere a Bartolomea, appena si accorse che le frullava in mente uno strano progetto.
Ma, come se niente fosse, un giorno Bartolomea glielo mise perfino sulla carta, chiaro e netto, scrivendole così: “…Sospiro ardentemente il momento di essere a voi unita per operare a gloria di Dio e a vantaggio del prossimo”. La voleva insomma compagna nella fondazione di un istituto che assicurasse un futuro a quello che già facevano. Una cosa in grande, secondo Caterina, che la sorprese come un fulmine nel sereno, turbandola profondamente.
Ma a crearle ancora più agitazione furono quelle altre parole, poste lì come per chiuderle ogni scappatoia: “Mettiamoci nelle mani del Signore, cerchiamo la sua volontà… non poniamo ostacolo alla sua opera; non desidero fare cose in grande, ma solo la volontà di Dio”.
Che ci fosse di mezzo il volere di Dio, lo sosteneva anche don Angelo Bosio, il direttore spirituale di Bartolomea. Caterina aveva sempre adorato le disposizioni della Provvidenza e bisognava comunque adorarle… Ora però si sentiva più che mai “una povera donna, buona a niente”; lei era una donna del quotidiano, della ferialità. Perché spingersi oltre?
Desolata, raccontò tutta la sua ripugnanza al Crocifisso in uno dei soliti appuntamenti in Santa Maria e, davanti a quel volto atteggiato al ‘sì, Padre’, dovette capitolare come sempre, senza capire. Perciò, quando incontrò Bartolomea, riuscì solo a balbettare:
– Io non sono persuasa di questo ma, se Dio vuole così, sia fatta la sua volontà.
E si dispose ad accettare tutte le conseguenze di quella nuova ‘crocifissione’.
In paese e tra i parenti quel consenso parve una pazzia che avrebbe di sicuro mandato in fumo i suoi beni. Più di tutti naturalmente si mise in allarme la zia Bartolomea, che in quell’opera non aveva nessuna fiducia, sebbene anche lei nascondesse sotto quel fare burbero l’animo caritatevole dei Gerosa.
Ma la giovane Capitanio, che pure aveva le sue lotte, teneva alta la speranza, per nulla impaurita dalle difficoltà, che considerava un segno della benedizione di Dio; alle amiche andava anzi dicendo che vedeva l’Istituto “camminare tra tante spine veloce e sicuro”. Incoraggiata da don Bosio, si era messa addirittura a scrivere un piano dell’opera, a modo di “Promemoria”.
Di fatto, dopo tanto esercizio di pazienza, venne la schiarita: la zia acconsentì alla divisione dei beni e si poté così comperare una casa presso Porta Seriana, vicino all’ospedale. Richiedeva lavori di restauro e di riadattamento perché la famiglia De Gaia, a cui apparteneva, l’aveva lasciata a lungo nell’incuria e nell’abbandono, ma l’importante era incominciare.
– Tutte le opere hanno un principio – incalzava Bartolomea – e sono contenta che sia basso e umile… Voi, Caterina, prendete nuovo coraggio, pensate, parlate, operate perché presto riesca la cosa.

Insieme al Conventino
Per quel “principio” Caterina e Bartolomea si erano date appuntamento all’alba del 21 novembre del 1832 presso l’altare dell’Addolorata nella chiesa parrocchiale di San Giorgio, a quell’ora quasi deserta. Lì il parroco, don Rusticiano Barboglio, e don Angelo Bosio celebrarono una Messa tutta per loro. Insieme si recarono poi a casa De Gaia – il Conventino -, dove Bartolomea e Caterina, inginocchiate davanti a un’immagine della Madonna, posta tra due candele su un cassettone, promisero a Dio di dedicarsi interamente al servizio dei prossimi per suo amore.
C’era solo povertà in quegli ambienti che mancavano degli oggetti più necessari, ma Bartolomea si sentiva “nel recinto del Signore”, felice come una pasqua, e non avrebbe cambiato quella gioia con nessuna cosa al mondo. Per Caterina invece i fastidi non erano finiti: subito dopo, infatti, dovette recarsi a casa per assistere la zia, che si era ammalata, e per sistemare gli affari domestici, pur riservandosi qualche capatina al Conventino a dare una mano a Bartolomea, alle prese con tanti impegni.
Tornò definitivamente, dopo una quindicina di giorni, con il solo proposito di obbedire, lavorare e servire, lasciando alla sua giovane compagna la direzione dell’opera.
– Tu sarai la superiora – le disse subito; – hai istruzione e capacità, mentre io sono stata educata sotto il camino.
– Ma voi avete la saggezza dell’età, l’esperienza… – ribatteva Bartolomea.
Ne nacque una gara di umiltà, piacevole come un fioretto francescano.
Per tutte e due vennero presto giornate laboriose: le incominciavano con la partecipazione alla Messa in San Giorgio, poi bisognava attendere alle orfane, fare scuola, visitare gli ammalati, correre all’oratorio; c’erano pure le faccende domestiche, l’orto da coltivare; erano in corso anche i lavori di adattamento del fabbricato.
Solo le ombre della sera spegnevano le voci e riportavano un po’ di quiete al Conventino. Caterina e Bartolomea si raccoglievano allora attorno a un lume, chine sul libro delle regole che don Bosio aveva loro procurato, scegliendo quelle ispirate da san Vincenzo de’ Paoli. Le studiavano perché volevano dar forma ordinata alla loro vita. Avevano tra le mani anche il “Promemoria”, dove Bartolomea aveva espresso con molta precisione le sue intenzioni: avrebbero fatto tutto il possibile per aiutare le persone bisognose, prendendo come esempio e guida Gesù Redentore, che a questo mondo passava facendo del bene a tutti e infine accettò di morire in croce per mostrare agli uomini quanto Dio li ami.
Gesù Crocifisso era anche per Caterina “il gran libro da meditare e da imitare”; la vita le aveva insegnato a leggerlo e a porsi alla sua scuola. Soleva, infatti, ripetere con vera convinzione: “Chi sa il Crocifisso sa tutto”.
Nei programmi, quindi, si sentivano dentro bene tutte e due. L’impostazione di vita era evangelicamente sicura; il resto sarebbe venuto a poco a poco, seguendo i passi della Provvidenza.
– Piano piano si va innanzi e si spera di stabilire presto ciò che si desidera – spiegava Bartolomea alle amiche, che stavano a vedere, forse non ancora del tutto persuase.
Di fatto, non erano neppure trascorsi due mesi ed ecco presentarsi una giovane di Sellere, Maddalena Giudici; voleva solo dare una mano nelle faccende domestiche, visto che a tutto Bartolomea e Caterina non potevano arrivare, ma presto decise di rimanere con loro come sorella.
Su quello che nasceva al Conventino vigilava con cuore di padre anche don Angelo Bosio, che nel frattempo compiva i passi necessari per ottenergli la regolare approvazione governativa.
Intanto le giornate di primavera facevano esplodere il verde e i fiori sul pendio della collina dietro la casa e la vivacità delle alunne nelle aule e nel cortile. Tutto sorrideva e prometteva vita, quando – era il 1° aprile del 1833 – Caterina vide rientrare, dopo una celebrazione in San Giorgio, Bartolomea sbiancata in viso, con le gambe che non la reggevano. Stava proprio male: dovette mettersi a letto, sottoporsi a cure energiche tra le premure affettuose e lo sgomento delle compagne, che non cessavano di supplicare il Signore per la sua guarigione, ma insieme sentivano ogni giorno morire in sé un po’ di speranza.
Eppure tutte e due – Caterina e Bartolomea – ebbero tanto coraggio e tanta fede da firmare, lì su quel letto, l’atto di fondazione dell’Istituto da presentare all’autorità civile. A Bartolomea rimaneva poco più di un mese di vita, neppure il tempo necessario per conoscere la risposta favorevole. Si spegneva il 26 luglio di quello stesso anno con la serenità e la fiducia dei santi, ma gettando in una grande costernazione le compagne, i familiari e tutto il paese.

Andiamo avanti
In quei giorni i loveresi non riuscivano a distogliere il pensiero dal Conventino. Da ogni punto del paese si poteva scorgere la “torretta” medievale che sembrava indicarlo dall’alto della collina. Guardavano lassù e si guardavano tra loro con muti interrogativi.
Ancora maggiore era lo smarrimento in casa De Gaia: Maddalena si preparava a fare le valigie e anche Caterina aveva deciso di tornare sui suoi passi e alle sue abitudini. Ma non furono dello stesso parere i sacerdoti , che biasimarono quella mancanza di fiducia nella provvidenza di Dio.
– Perché calcolare solo la propria impotenza? Non è meglio confidare nell’aiuto del Signore, che con tanti segni ha fatto capire di volere l’opera? – dissero loro in tono risoluto.
Tanto bastò perché Caterina si umiliasse profondamente e, pur tra le lacrime, rioffrisse la propria disponibilità.
– Non capisco, non vedo…, farà Dio. Sono qui, facciano di me quello che vogliono…, anche il mio è nelle loro mani.
Trovò anche la forza per incoraggiare Maddalena che era inconsolabile.
– Dio – le disse avvertendo già in sé una nuova energia – ha tolto quella che era la nostra speranza, perché egli vuole essere l’autore dell’opera… Tiriamo avanti con fiducia e lasciamo fare a lui.
Il Conventino riaprì le porte e la vita riprese con tutte le iniziative avviate da Bartolomea. Nelle faccende domestiche e negli affari, con le orfane e con gli ammalati Caterina sapeva disimpegnarsi bene, aiutata da Maddalena; la scuola, invece, fu affidata a Maria Gallini, una giovane di diciassette anni, educata anche lei dalle clarisse.
La vita santa di Caterina era come il fermento di tutte quelle attività e a sua insaputa attirava gli animi “come una calamita”. Piano piano, infatti, alcune giovani varcarono la soglia del Conventino per restarvi: Chiara Colombo, Margherita Rivellini, la stessa maestra Maria Gallini, Francesca Rosa… E la catena non si chiuse più.
Caterina sapeva riconoscere subito quelle veramente adatte; capiva se erano disposte a “studiare il Crocifisso” per imparare da lui a essere umili e piene di amore; le accoglieva allora con un “benvenute nella nostra casa”. Osservava invece un po’ perplessa quelle che si presentavano con il cappellino, invece del più comune fazzoletto, o si mostravano “troppo signorine”, giustificandosi umilmente:
– Noi siamo povere donne, non siete adatte per noi.
Così quello che Bartolomea aveva solo intravisto cominciava a prendere contorni: erano venute le compagne che essa aveva chiesto al Signore, fu inaugurata la cappellina da lei sognata, si introdusse l’osservanza della regola e, per il secondo anniversario della fondazione, era pronto anche l’abito religioso. In verità, costò molto a Caterina rinunciare al fazzoletto nero e al grembiulone domestico; le sembrava – diceva – “di mettersi da signora” con la nuova divisa, ma poi si piegò all’obbedienza.
Si volle anche scegliere la superiora con una regolare elezione e naturalmente venne confermata Caterina, la quale sulla sua scheda aveva scritto: “Nomino ed eleggo ciascuna delle mie figlie a superiora, perché le ritengo tutte capaci, eccetto me”.
A tenere vivo lo spirito che Bartolomea voleva imprimere al suo Istituto la aiutava don Bosio, intrattenendo la comunità con periodiche conferenze.
– Mi è dolce potervi parlare… troppo mi preme che apprendiate bene lo spirito dell’Istituto – diceva introducendosi -; le cose da dirvi sarebbero molte, ma basta che ne pratichiate bene una: seguire Gesù Cristo, nostro maestro e modello.
Il Conventino voleva camminare su quelle orme.

Altre chiamate
Proprio mentre la comunità voleva avviarsi a regolarità di vita, sopraggiunse, nell’estate del 1836, un’epidemia di colera. Il paese fu subito in apprensione, perché i casi si moltiplicavano.
Caterina, sempre attenta ai bisogni della sua gente, capì che quella era l’ora di dar prova della carità a cui la piccola comunità si era votata. Radunò le sue cinque compagne, fece con loro una lettura evangelica di quell’emergenza e comunicò la sua decisione, senza obbligo per nessuna di seguirla.
– Il Signore – disse – ora viene a trovarci sotto forma di coleroso. Se qualcuna si sente di assisterli, vada… Quanto a me, il dovere e l’amore per essi mi chiamano…
E si mise subito all’opera: rimandò le ragazze nelle famiglie, sistemò altrove gli ammalati e nell’ospedale accolse i colerosi, che di fatto assistette come si conveniva a “vere vive immagini dell’amabilissimo Redentore”. Se ne ripartì commossa per tanto cuore e tanta fede la stessa deputazione comunale, vivamente riconoscente per quella sua disponibilità.
Ovviamente le altre corsero dietro la superiora.
– A vederla – confidò Maddalena – mi vennero le ali ai piedi, sebbene avessi un po’ di paura del morbo.
Caterina, però, le teneva d’occhio perché usassero tutte le precauzioni necessarie e si alternassero nelle fatiche: erano giovani e una volta sulla breccia non sapevano misurarsi!
Furono tutte preservate dal contagio e, passata l’emergenza, anche i più diffidenti in cose di religione si domandavano dove avessero potuto attingere tanta generosità.
Non solo, ma anche per i paesi e le città circostanti fu come se al Conventino si fosse acceso un faro. Autorità civili ed ecclesiastiche, a cui giunse l’eco di quella dedizione, cominciarono a puntare lì i loro pensieri, dovendo provvedere ai bambini rimasti orfani durante l’epidemia e alle ragazze abbandonate a se stesse.
In breve e inaspettatamente, infatti, don Bosio si trovò sul tavolo di lavoro le prime richieste di suore da parte di don Carlo Botta di Bergamo e del can. Giacomo Correggio di Treviglio, impegnati a far fronte a quei nuovi bisogni.
Il problema era come comunicare a Caterina quella nuova prospettiva di vita per il Conventino, tanto la si sapeva lontana dal supporla e restia a far conoscere il bene che si operava. Il parroco e don Angelo tentarono con molto tatto di fargliene un piccolo accenno, solo per saggiare il terreno. Ma essa capì a volo e, quasi presa dal panico, sfogò, su due piedi, tutte le sue perplessità: “Non era quella la sua intenzione… se avesse saputo… la nicchia sua e delle sue figlie era Lovere… qui occupazioni ne avevano abbastanza… la cosa non poteva avere buon effetto… non se ne parlasse più…”.
C’era di mezzo, questa volta, la sua responsabilità nei confronti delle compagne, che non avrebbe mai allontanato da sé ed esposto a situazioni imprevedibili e rischiose. La lasciarono con i suoi pensieri, rispettando il suo silenzio, che durò qualche mese.
Finalmente – ma ci vollero parecchie soste davanti al Crocifisso e un cenno incoraggiante del vescovo di Brescia, da lei stessa consultato – riuscì a dire:
– Se Dio vuole così, sia fatta la sua santa volontà.
Aveva compreso che in fondo in fondo quell’imprevedibile apertura di orizzonte era proprio la benedizione che Bartolomea aveva sperato.
– Era un’aquila, lei! – ammise umilmente.
Si ritirò, quindi, rassegnata nella sua camera, impugnò la penna e scrisse: “Adorabile mio Salvatore, desidero attingere dal vostro Cuore e scolpirli nel mio questi sentimenti. Ben lontana dal lasciarmi vincere dalle mie ripugnanze in questa santa opera, io mi dedico ad essa con rinnovato ardore. Non avrò di mira che voi nelle mie azioni e cercherò di servirvi con fedeltà. I più poveri saranno in modo speciale l’oggetto delle mie cure e riconoscerò voi stesso in ciascun tribolato e povero. Felice me, se potrò terminare il mio cammino in così santo esercizio”.
Ripiegò il foglietto e lo inserì nel libro delle preghiere per tenerselo sotto gli occhi. Era la sua riconsegna all’opera, il sigillo del suo impegno a farla fiorire così come la sua compagna l’aveva intuita, accogliendo anche quella, per lei impensabile, prospettiva di futuro: un istituto per ogni tempo e per ogni luogo.
Di fatto, il 21 maggio del 1837 cominciò l’esodo dal Conventino con due suore e due giovani aspiranti, mandate all’istituto Santa Chiara a Bergamo, tra i bambini della scuola infantile; successivamente altre si stabilirono nel ritiro delle traviate, pure a Bergamo, e nell’orfanotrofio di Treviglio. “Avete un vasto campo da coltivare – scrisse loro Caterina -. Quanto volentieri correrei a dividere con voi le fatiche”.
Le fatiche, in realtà, c’erano in quegli inizi sempre molto poveri. Il lavoro era tanto e tanta era anche la fame che esse abilmente zittivano con pari allegria.
– Quanta pietanza per così poco pane! – venne spontaneo esclamare a una di loro vedendo sul piatto solo un grosso gambo di sedano.
E la sera si facevano bastare il lume di un moccolo di candela posto in mezzo al tavolo per correggere i compiti e preparare i lavori per il giorno dopo. Ma per quella dedizione e per quei sacrifici i bambini avevano una scuola, le orfane una casa, le giovani un accompagnamento nella vita, gli ammalati cure e conforto.
Intanto, come un albero giovane, l’Istituto continuava a ramificare, oltre che nella provincia di Bergamo, anche in quelle di Milano, di Brescia, di Cremona, chiamato dalle tante voci del bisogno a testimoniare con il servizio la carità del Redentore.
Le partenze per la missione si facevano sempre più frequenti, ma insieme crescevano pure le file delle giovani che volevano essere compagne di quelle prime. E anche di questo si stupiva Caterina, che non si sarebbe mai permessa di prevenire la Provvidenza, perché – diceva – “è il Signore il padrone dei cuori. E’ lui che li tocca e li chiama. L’opera è sua e sa quello che le torna in bene. Lasciamo fare a Dio”.

Un nome nuovo
Il 14 settembre 1841 si annunciava come un gran giorno per il Conventino. Il mattino presto le vie di Lovere brulicavano già di gente venuta anche dai paesi vicini. Le campane facevano concerto e la chiesa parrocchiale di San Giorgio era addobbata come per le grandi cerimonie.
L’evento era in realtà quanto mai insolito in un paese. Si trattava dell’inaugurazione ufficiale dell’Istituto, che aveva finalmente ottenuto il riconoscimento pontificio. C’erano perfino il vescovo di Brescia, mons. Carlo Domenico Ferrari, e il delegato provinciale di Bergamo, ed erano stati preparati vari discorsi per illustrare la circostanza.
La natura sullo sfondo del Conventino vestiva i colori solenni dell’autunno, e dignitose nella loro uniforme erano anche le nove suore che, seguite da sei novizie e da nove postulanti, scendevano verso la chiesa parrocchiale, procedendo – precisano le cronache – modeste e liete, con passo umile e deciso, come erano i sentimenti del loro cuore. Il culmine della cerimonia fu la professione religiosa delle nove suore, che ricevettero anche un nome nuovo. Caterina ebbe quello di suor Vincenza e venne pure confermata nel suo compito di superiora, sebbene avesse tentato di tirarsi indietro, di lasciare ad altre quella responsabilità.
– Sono vecchia – si giustificava – non sono buona ad altro che a guastare l’opera di Dio. Farò quanto potrò, aiuterò, brigherò, ma da suddita.
Quella conferma – ricordava una di loro – fu l’unica spina di quella bellissima giornata. Ma poi cantò anche lei con le altre il Te Deum, mentre, ancora processionalmente, risalivano verso il Conventino e la folla si componeva dietro di loro, presa da una generale commozione. Di lacrime – narrano le cronache – luccicavano in particolare gli occhi di chi aveva tra loro la figlia, la sorella, la parente.
Con quell’atto il Conventino aveva fatto chiaramente conoscere la sua identità di nuova famiglia religiosa nella Chiesa e tutti ormai potevano costatare che lo spirito intraprendente e coraggioso della Capitanio passava sempre più in suor Vincenza, amalgamandosi bene con il suo umile sentire.
Ma lassù Bartolomea sembrava ancora divertirsi a giocarle qualche tiro birbone. Essa, infatti, nel frattempo si era fatta conoscere addirittura nel Tirolo austriaco attraverso la sua biografia arrivata là chissà come e tradotta perfino in tedesco. Così, non solo aveva indirizzato a Lovere nuove compagne, ma aveva suscitato anche il desiderio della presenza delle suore in quella diocesi. In breve, esse furono, infatti, negli ospedali di Rovereto, di Arco, di Trento.
Poi la voce del bisogno si levò dal Veneto e le suore, sollecite, arrivarono pure a Legnago e a Rovigo.
Ormai si continuava a bussare al Conventino, e talvolta al portone si presentavano eminenti personaggi che volevano vedere la superiora, della quale avevano sentito parlare con grande ammirazione. Spesso la trovavano, con grembiule e zoccoli, nell’orto a strappare l’erba, o al fontanone a sciacquare i panni, o ad accatastare la legna, a verniciare una porta, perfino a ripulire le patate nella neve, quando l’acqua scarseggiava. Lo stesso viceré Raineri, venuto con il suo seguito, se la vide comparire davanti con una grembiulata di cocci.
– Ecco la vecchia – diceva allora, senza preoccuparsi di togliersi il grembiule, a chi insisteva per vederla -; quando ha veduto una vecchia ha veduto tutto.
E quelli, anziché meravigliarsi di una così strana accoglienza, se ne partivano convinti di aver incontrato una santa. Evidentemente essa mirava a stornare quell’attenzione che vedeva crearsi attorno alla sua persona.
– Con fondamento di tanta umiltà l’Istituto non potrà perire – esclamò mons. Giacomo Freinadimetz, vicario generale della diocesi di Trento, notando i suoi modi umili durante un colloquio con lei.
L’Istituto, di fatto, andava producendo ovunque frutti di bene e suor Vincenza, a cui ne giungeva notizia, se ne rallegrava, concludendo però sempre con prontezza e con tanta convinzione:
– E’ la mano di Dio che fa tutto. Noi siamo povere donne.

In santa compagnia
Godeva suor Vincenza del bel servizio ai prossimi che le suore prestavano e tuttavia il pensiero di quelle ‘figlie lontane’ da Lovere, a contatto con tante miserie, tra continue fatiche, a volte anche esposte ai pericoli, non la lasciava tranquilla.
– Se potessi essere con loro sarebbe minore la mia pena – ripeteva.
Pensò allora di richiamarle a turno, per alcuni giorni, al Conventino, tra l’agosto e il settembre, quando era più facile per loro staccarsi dagli impegni. Ed esse venivano, contente di stare un po’ con la superiora, che le accoglieva spalancando braccia e cuore e mettendo in allegria tutta la casa. E poi via con lei a ricrearsi serenamente, a raccontarsi le esperienze, a consigliarsi, a condividere le piccole sorprese che essa preparava per ristabilirle.
Bel bello capitava anche don Bosio, che dava loro il benvenuto con altrettanta commozione.
– Finalmente siete ritornate a casa vostra per riposarvi; troppo giusto, troppo giusto, dopo tante fatiche sostenute per la carità. Il cuore vorrebbe vedervi di frequente…, ma adesso siete qui…
E il discorso finiva immancabilmente nella ormai famosa “predica del baule”. Chiamava così quel bagaglio spirituale, che ciascuna si era portata con sé lasciando il Conventino e che in quelle giornate era quanto mai opportuno rivedere, per rimuovere, se mai vi si fosse depositata, la polvere delle pigrizie e ravvivare lo slancio della consacrazione e del servizio. Parlando con confidenza e con cuore di padre, le aiutava insomma a fare un po’ di bilancio, perché gli premeva troppo che nella loro missione fossero animate dal vero spirito dell’Istituto.
In tutte poi la commozione si rinnovava quando giungeva il momento di ripartire. Suor Vincenza sembrava non darsi pace: si domandava se avesse proprio intuito i bisogni di ciascuna e andava spalancando gli armadi, se mai occorresse loro qualche altra cosa, e intanto consolava, dava gli ultimi consigli, incoraggiava.
E, sebbene i viaggi le costassero e la salute si facesse sempre più malferma, non tralasciava poi di raggiungerle nelle loro comunità, spingendosi perfino nel Tirolo: ad Arco, a Rovereto, a Trento, e ovunque si rinnovava nella reciproca accoglienza la festa del cuore. La sua era una santa e umanissima compagnia che corroborava, sosteneva, lasciava nella pace e nel fervore.
Giustamente si disse di lei che era sempre e in tutto mossa dalla carità. Durante quei viaggi le capitò anche di ripetere alla lettera i gesti del buon samaritano, avendo trovato a lato della strada, tra Treviglio e Bergamo, un uomo caduto dal calesse, senza aiuto.
Un’altra volta toccò a lei e alle suore che l’accompagnavano trovarsi stramazzate a terra da un cavallo imbizzarrito. Soccorse da un contadino, che le aveva osservate dal suo campo, ebbero per un miracolo salva la vita.
I disagi non la intimidivano se c’era di mezzo il bene degli altri e neppure si lasciava abbattere dalle contrarietà. La sua fede nella Provvidenza era tale che, quando capitavano, soleva “darsi una fregatina di mani”; poi andava lesta a suonare la campanella del convento, perché accorressero tutte in chiesa a cantare il Te Deum.
– Dobbiamo sempre ringraziare il Signore – spiegava a chi riteneva strana la cosa.
Ma tutte in fondo sapevano bene che, come i santi, essa vedeva oltre: vedeva la mano di Dio provvida e benefica sempre e comunque.

Lasciatemi andare
Arrivò già carico di impegni il 1847, essendo in corso varie pratiche per nuove fondazioni. Tra queste la casa in contrada San Bernardino a Bergamo, nella quale, sotto la guida accorta e dinamica della superiora suor Annunciata Carminati, fioriranno via via varie opere e anche un noviziato.
– Carminati, Carminati – aveva insistito nell’affidargliela suor Vincenza -, vi raccomando la povertà, se no la casa non durerà.
Incominciarono di fatto col chiedere a prestito una pentola per il primo pranzo.
Suor Vincenza vide poi partire le suore per l’orfanotrofio di Romano Lombardo, ma questa volta dal letto a cui la costrinsero gli acciacchi che da tempo si trascinava. Si era trovata in più i piedi gonfi.
– Ecco qua i segnali – disse intuendo la gravità del suo stato di salute -; se adesso Dio mi vuole con sé, sono contenta.
Pensò, quindi, a sistemare gli affari materiali per non lasciare in difficoltà le sue suore e affidò la direzione della casa a suor Crocifissa Rivellini, maestra delle novizie, che stimava per le sue capacità e per il suo buono spirito. L’avrebbe voluta soltanto un po’ meno severa. Perciò, chiamatala a sé un giorno, le lesse alcune raccomandazioni sul modo di porsi con le suore, che aveva preparato con cura su un foglietto: una vera pedagogia della carità, basata sulla comprensione, sull’affabilità, sul rispetto reciproco, su metodi di direzione personalizzati, sull’attenzione all’età, ai bisogni…, un vademecum prezioso, che commosse suor Crocifissa.
Tutte le suore lontane avrebbero voluto essere lì, anche solo per un attimo, in quella stanza a ricevere da lei una parola, una benedizione; le fecero comunque sapere che desideravano almeno alcuni ‘ricordi’ da scolpire nel cuore. Suor Vincenza le accontentò e li incominciò richiamando loro il comandamento dell’amore: “Amatevi scambievolmente, compatitevi l’una l’altra, e avrete la benedizione di Dio”; e li concluse così: “Il Signore vi dia grazia di impiegare bene il tempo della vostra vita per poter un giorno tutte insieme lodarlo in Cielo”.
Sebbene restia, dispensò ‘ricordi’ anche ad altre persone che la visitavano e che insistevano nella richiesta.
– Ricordatevi di predicare Gesù Cristo e non don Paolo – raccomandò a un sacerdote da lei particolarmente aiutato.
E al delegato provinciale:
– Sia sempre un giusto e caritatevole magistrato!
Uno di quei giorni poi l’infermiera, suor Caterina Bianchi, si sentì rivolgere una strana domanda:
– Sono tutte a pranzo le suore?
– Sì, non si scorge più nessuno attorno.
– Allora vi chiedo il favore di portare qui da me suor Maria Zoja.
Fu presto fatto perché la suora, di appena venticinque anni, gravemente ammalata, era ormai ridotta a un mucchietto di ossa. Si incontrarono con un lampo di gioia negli occhi, poi si svolse tra loro un dolcissimo colloquio, che, a detta di suor Caterina, avrebbe intenerito anche i sassi. Parlavano del Paradiso e si incoraggiavano a patire volentieri. Infine suor Maria chiese la benedizione e nell’accomiatarla la superiora le susurrò:
– Tocca proprio a te andare per prima in Paradiso; addio, suor Maria, oggi otto forse saremo morte tutte e due.
Poi, seguendo ormai solo quel pensiero, suor Vincenza volle che si mettesse in festa la camera; chiese l’Unzione degli infermi e il Viatico e trascorse i giorni che le rimanevano in un grande raccoglimento, bisbigliando preghiere.
Giunse così alla mattina del 29 giugno. Ricevuta l’Eucaristia, domandata con insistenza, sembrava assopirsi, quando la si udì esclamare:
– Lasciatemi andare, lasciatemi andare!
– Dove? – le chiesero.
– In Paradiso, in Paradiso!
Poi strinse il Crocifisso, fissandovi lo sguardo e il cuore, e pronunciando i nomi di Gesù, Maria, Giuseppe spirò. Erano le ore dieci e la Chiesa celebrava la solennità dei santi Pietro e Paolo. Suor Maria l’aveva preceduta di tre ore e si stavano effettivamente compiendo gli otto giorni da quel loro fortunato incontro.
Con le lacrime agli occhi, suor Crocifissa prese subito la penna per darne l’annuncio alle altre comunità: “…La santa, la pietra fondamentale dell’Istituto non è più, ma ci ha più volte assicurate che in Cielo avrebbe pregato per tutte e che il Signore ci accompagnerà sempre se fra noi regneranno carità e armonia…”. Se ne era andata lasciandole eredi di quel grembiule e di quegli zoccoli, di cui si compiaceva, segni del suo umile, appassionato servire.
Al portone del Conventino si formò subito un andirivieni incessante di gente che voleva vederla, affidarle ancora qualche pena, piangerla, poiché – dicevano – era come “se fosse morta la mamma di tutti”.

Dopo di loro
Avevano lasciato questo mondo, Bartolomea e Vincenza, promettendo che dal Cielo avrebbero vegliato sull’Istituto più di prima.
La Provvidenza di Dio accompagnò, di fatto, il suo cammino aprendo sempre nuove strade alla sua missione di carità tra i bambini, i giovani, gli ammalati, gli anziani, i più poveri e abbandonati.
Nel 1860 le suore vennero chiamate nel Bengala (India) e da allora non ci furono più confini per la loro missione. Attualmente l’Istituto ha carattere internazionale ed è presente, oltre che in Italia, in altri Paesi europei (Spagna, Inghilterra, Romania), in Asia (India, Bangladesh, Myanmar, Giappone, Israele, Nepal, Turchia), in America (Argentina, Brasile, Perù, Uruguay, California), in Africa (Zambia, Zimbabwe, Egitto).
Fedeli alle loro origini, le suore si impegnano a seguire “gli esempi lasciati da Gesù Redentore”, facendosi testimoni e segno della sua carità operosa e oblativa nella consacrazione a lui e nel servizio per il bene dei prossimi più bisognosi.
Nate come Suore di carità, ebbero anche la denominazione popolare di Suore di Maria Bambina, in seguito al dono di un simulacro, ora custodito nel santuario annesso alla Casa generalizia di Milano in via Santa Sofia.
Don Angelo Bosio, che accompagnò con il consiglio e con l’opera il primo trentennio di vita dell’Istituto, ebbe anche la consolazione di vedere avviarsi i processi per la canonizzazione di Bartolomea e di Vincenza.
Queste due pioniere vennero dichiarate sante, insieme, da Pio XII il 18 maggio 1950. In esse la Chiesa propone un modello di santità sempre attuale e possibile a tutti quelli che hanno in cuore la passione per la carità, secondo il comando e l’esempio del Signore.
“Va’ e anche tu fa’ lo stesso” (Lc 10,37).