Prima lettura: Os 11,1.3-4.8c-9; seconda lettura:  Ef 3,8-12.14-19;  vangelo: Gv 19,31-37

La liturgia di questa solennità del Sacro Cuore si alimenta di alcuni brani biblici di particolare rilievo, come il testo del profeta Osea (11,3-4.8c-9) e un passo della lettera di Paolo agli efesini (Ef 3,8-12.14-19). Mi limito a un breve commento del racconto della trasfissione tratta dal vangelo di Giovanni (19,31-37).

Il racconto, che non ha paralleli nei sinottici, è fortemente sottolineato dal testimone (l’autore) che ripete il suo gesto di attestazione per tre volte. Lui ha davvero visto il trafitto, completando una testimonianza che comincia con l’indicazione del Battista (Ho visto e ho testimoniato che questo è il figlio di Dio, 1,34). È il discepolo amato che si rivolge ai suoi ascoltatori e a noi, ammonendoci «affinché voi crediate»: solo colui che ama vede; ed è nel Suo amore, nell’amore della Chiesa per il Signore, che anche noi siamo chiamati a vedere.

A vedere cosa? Anzitutto a vedere colui che è stato innalzato, colui che ha conosciuto il patire, l’umiliazione e la morte e che nel gesto dell’abiezione sperimenta la glorificazione. Gesù innalzato sconfigge il capo di questo mondo e diventa centro di attrazione per tutti. I sinottici parlano, al momento della morte, dello squarciarsi del velo (Mc), del terremoto e della risurrezione dei giusti (Mt), del riconoscimento di Gesù come Figlio (Mc, Mt), della conversione delle folle che assistono allo “spettacolo” (Lc). Il morire che per tutti significa essere riconsegnati alla terra e compiere il proprio tragitto vitale, per Gesù è l’inizio di tutto.

A vedere che cosa? Più specificamente a vedere la trasfissione della lancia. Il Figlio dell’uomo squarciato dalla lancia è l’apertura al cielo su ogni figlio dell’uomo. Non serve ad accertare la morte di Gesù, già evidente. Serve ad altro. Serve a vedere le viscere di Dio. Attraverso il cuore di Gesù entriamo ove non potremmo mai entrare, nel mistero stesso dell’amore indicibile di Dio. L’insistenza di Giovanni in merito è esattamente quella di chi sollecita la comprensione ultima dell’identità del Figlio e dell’identità del Padre. Il cuore e le viscere nella tradizione biblica raccolgono quello che noi chiamiamo gli affetti, l’intelligenza, la volontà, l’identità, il compito della vita. Il soldato e il narratore ci fanno vedere l’invisibile. E lo fanno attraverso la carne del Signore. Non c’è alcuna possibilità di salvezza e di comprensione della fede se non nella carne del Figlio di Dio. Il corpo di Gesù è il vero santuario.

Vedere l’innalzato, vedere il cuore squarciato, vedere il sangue e l’acqua. Il sangue è simbolo di tutta l’esistenza del Figlio profusa in favore dei fratelli; l’acqua è la fonte viva che scaturisce dalla sua vita offerta per noi. E dall’acqua e dal sangue nasce la Chiesa, generata non per volontà di uomini ma dall’amore del Padre nella carne del figlio, per la forza dello Spirito. Contemplando la ferita la Chiesa, ogni comunità credente, nasce come sposa del suo Signore e madre dei fedeli.

Dal pozzo di Giacobbe bevvero i nostri padri e i loro armenti; da questa fenditura della roccia l’universo intero attinge la vita del figlio. Basta accostare ad essa la bocca: «O voi tutti assetati venite all’acqua» (Is 55,1), «Haurietis acquas in gaudio de fontibus Salvatoris (salutis)» (Is 12,3) Attingerete con gaudio le acque dalle fonti del Salvatore. È l’inizio dell’enciclica sulla devozione al Sacro Cuore di Pio XII (1956). Vi è oggi la tendenza a ignorare il tema della devozione, a saltare tre secoli in cui essa ha difeso nella coscienza cristiana la centralità del corpo e del cuore di Cristo. È bene ricordare quello che K. Rahner ha sottolineato: «La sensazione di poter semplicemente lasciarci alle spalle questo passato della nostra Chiesa come una formula vuota _ cosa che, data l’ignavia dei nostri cuori, siamo sin troppo tentati di fare _ non prova ancora che lo possiamo fare lecitamente davanti a Dio e davanti alla nostra responsabilità per la continuità della storia della Chiesa. Una sensazione del genere dovrebbe piuttosto riempirci di paura; dovremmo domandarci se un simile stanco lasciarsi ricadere in una primitività spirituale, che si richiama erroneamente ai tempi antichi, allorché non esisteva alcuna devozione al Cuore di Gesù, non sia appunto qualcosa che può e deve essere superato con decisione e con speranza sul piano spirituale. Dovremmo domandarci se _ qualora il passato non debba diventare anche il nostro giudizio _ a noi non sia riservata una nuova conoscenza dell’essenza di questa devozione e un suo nuovo esercizio. Non tutto quello che oggi ci affascina come una plausibilità indiscutibile, e viene smerciato e comprato dappertutto così, è sempre e solo ciò che rende grandi e santi davanti a Dio e per il futuro della Chiesa. Questo può anche racchiudere tanti elementi pazientemente e faticosamente imparati» (K. Rahner, «La devozione al Sacro Cuore oggi» in Nuovi saggi teologici, vol X, Paoline, Milano 1986, pp. 408-9).

È grazie alla devozione al Sacro Cuore che abbiamo interiorizzato il senso dell’azione misericordiosa di Dio, la centralità di Cristo in ordine all’Alleanza e non solo alla morale, la possibilità per tutti dell’esperienza mistica. «La devozione al Cuore di Gesù è stata più che una devozione: era un bisogno, era la scoperta di una chiave di lettura del cristianesimo» (G. Moioli). Farne memoria nel gesto liturgico significa non solo riprendere un lungo tratto del cammino ecclesiale, ma anche interiorizzare quell’eccedenza simbolica racchiusa nel cuore di cui il brano della trasfissione è l’emblema. Il vissuto corporeo di Gesù diventa l’insuperabile corporeità in cui il Logos è una volta per tutte e che attesta in maniera ultima e definitiva l’identificazione di Dio e la sua dimensione paterna.

La permanenza nell’anima di una parte dei nostri fedeli della devozione al Sacro Cuore, la sua ripresa da parte di alcune delle nuove comunità francesi (come Emmanuel), la sua riespressione nel culto a Gesù Misericordia della santa Kowalska, dovrebbe renderci attenti davanti a una pigra rimozione. Perché della devozione abbiamo bisogno. Essa è nata come denuncia dell’insufficienza della lectio scolastica, dottrinale più che misterica o sapienziale; contro i rigidismi del giansenismo e le fragilità di Chiese troppo subalterne alle identità nazionali; contro un cristianesimo avulso dalla storia. Abbiamo bisogno della devozione per vivere una fede capace di emozioni, di dare forma al vissuto credente creando uno stile, di interiorizzare il patrimonio dogmatico e liturgico. Ne abbiamo bisogno per evitare le malattie dell’anima legate al pragmatismo, allo scientismo, al nichilismo e al relativismo contemporanei. Per sopravvivere a quel fenomeno di «sistematico distacco tra coscienza individuale e cultura, tra forme dell’esperienza del soggetto e forme del rapporto sociale (che è ) il tratto forse più qualificante, e comunque più problematico, dell’esperienza civile dei paesi occidentali» (G. Angelini).

Per Ugo di san Vittore lo spirito che vuole elevarsi a una vera preghiera deve percorrere una serie di tappe successive: la meditazione lo condurrà alla scienza, la scienza gli procurerà la conoscenza di sé, la conoscenza avvierà la compunzione, ma la scoperta della propria miseria obbligherà l’anima a volgersi umilmente e filialmente verso Dio nella devozione. Essa, infine, ci è necessaria per il compito in atto delle nostre Chiese nella recezione del Vaticano II, e cioè per interiorizzare e fare propri i gesti centrali della fede che l’assise ecumenica ha ricordato alla nostra Chiesa: la frequentazione della Scrittura, la partecipazione ai riti sacramentali, la rinnovata coscienza del proprio compito testimoniale, la consapevolezza di essere popolo di Dio, la partecipazione alla storia di tutti. Ne abbiamo bisogno per vivere il nostro ministero con la passione per Dio e la passione per l’uomo.

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