La parola “Non ho tempo” la diciamo e l’ascoltiamo così spesso che ci pare come un condensato dell’esperienza comune. Noi abbiamo un’acuta percezione della sproporzione tra il tempo che abbiamo e le sempre più numerose opportunità a nostra disposizione, e insieme le molteplici scadenze, urgenze, attese che ci incalzano.

Ma se potessimo dilatare a dismisura il nostro tempo, se potessimo avere, come talora ci capita di desiderare, una giornata di quarantotto ore invece di ventiquattro, la nostra inquietudine si placherebbe? Certo, riusciremmo a fare molte più cose (almeno lo pensiamo). E’ però questo ciò di cui abbiamo bisogno? Non credo. L’ansia che ci prende al pensiero dello scorrere del tempo non dipende dal numero delle ore che abbiamo a disposizione.

Non è la mancanza di tempo in quanto tale che ci assedia e ci inquieta, e neppure la molteplicità degli impegni che sembrano gravare su di noi o la complessità dei problemi da risolvere. E’ piuttosto la percezione del fatto che il senso della nostra esistenza dipende strettamente dal tempo. Noi sentiamo – in qualche momento come una fitta dell’animo – che il nostro vivere consiste proprio nell’avere tempo, e non averne più significa morire. D’altra parte, nulla di ciò che di buono riusciamo a compiere o ad ottenere, riesce a fermare il tempo, a trattenerlo in modo stabile e definitivo nella nostra vita. Tutto infatti, non appena è raggiunto, di nuovo deve affrontare il tempo che passa: con le sue incognite, con il declino che lo accompagna.

C’è però un altro modo di affrontare il problema. Tra l’illusione di possedere il tempo e la disperazione per il suo venirci meno sta un atteggiamento completamente diverso, evocato con il termine vigilare.

Vigilare significa anzitutto vegliare, stare desti, rimanere all’erta. L’immagine più immediata è quella di chi non si lascia sorprendere dal sonno quando il pericolo incombe o un fatto straordinario ed emozionante sta per accadere. Vigilare significa badare con amore a qualcuno, custodire con ogni cura qualche cosa di molto prezioso, farsi presidio di valori importanti che sono delicati e fragili. Vigilare impegna comunque a fare attenzione, a diventare perspicaci, a essere svegli nel capire ciò che accade, acuti nell’intuire la direzione degli eventi preparati a fronteggiare l’emergenza.

L’atteggiamento evangelico della vigilanza fonda così un’etica del discernimento: chi attende il Signore si sa chiamato a vivere responsabilmente ogni atto alla presenza del suo Dio, e comprende che il valore supremo di ogni scelta morale sta nello sforzo di piacere a Dio e di santificare il suo Nome compiendo la sua volontà.

Vigilare è seguire Gesù, scegliere ciò che Gesù ha scelto, amare ciò che lui ha amato, conformare la propria vita al modello della sua; vigilare è avere la percezione di vivere ogni attimo del tempo nell’orizzonte dell’amore con cui Dio ci ama in Gesù e vuole essere amato da noi in Lui e con Lui.

Nella speranza l’oggi si apre all’orizzonte della eternità e l’eternità viene a mettere le sue tende nell’oggi; grazie alla speranza, il tempo quantificato (che non ci basta mai che è sempre troppo poco) diviene tempo qualificato, ora della grazia, tempo favorevole, oggi della salvezza, momento gustato nella pace.

Vigilare è accettare il continuo morire e risorgere quale legge della vita cristiana; le condizioni della vigilanza evangelica non sono dunque la stasi o la nostalgia, bensì la perenne novità della vita e l’alleanza celebrata sempre nuovamente col Signore Gesù che è venuto e che viene.

 

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